Where are the armies? Dobbiamo arrivare ad invocare gli eserciti per fermare Israele?

CERTO ESTREMISMO PRO PAL PUO' ANTICIPARE LA RIEDIZIONE (FARSESCA?) DEGLI ANNI DI PIOMBO? MEGLIO PREVENIRE!
Di Alfonso Navarra – coordinatore dei Disarmisti esigenti (25 settembre 2025)
(contributo preparatorio all'incontro online del 26 settembre 2025, Petrov Day. Per focalizzare la resistenza alla tendenza globale alla guerra, priorità delle priorità.
Per sottrarsi al baratro dell"'umanicidio" (il "genocidio programmato" dalla deterrenza nucleare) e per costruire, nella riconciliazione comune con la Natura, l'equilibrio vitale della "pace positiva".
(L'esigenza è di "bagnare" il più possibile le micce dei vari "pezzi" conflittuali prima che la forma bellica le faccia accendere e deflagrare nel modo più catastrofico).
Link per partecipare (dalle ore 18:00 alle ore 20:00 di venerdi 26 settembre):
https://us06web.zoom.us/j/81878655259?pwd=2XButLdb7NcHXom1ibHnuAOD0bFSoD.1 )
Ecco un'immagine ironica e pungente che mette in scena il paradosso di certo "pacifismo" militante, che in questo momento va per la maggiore. Il protagonista è un attivista coloratissimo, con bandana arcobaleno, occhiali con simboli di pace, maglietta tie-dye con la scritta "PEACE" e una bandiera rainbow che gli svolazza sulle spalle. Sul petto, un bottone "LOVE" e un ciondolo con il simbolo della pace completano il look.
Ma la scena è tutt'altro che pacifica: su una spiaggia desolata, tra corpi e spari in lontananza, di fronte a un massacro di civili in corso, lui grida con fervore: "WHERE ARE THE ARMIES??!" (DOVE SONO GLI ESERCITI?). Il contrasto tra il suo aspetto e la richiesta esagitata e arrabbiata di intervento militare è il cuore dell'ironia. La quale fa riferimento a una realtà indiscutibilmente tragica con la quale stiamo oggi facendo i conti: l'intervento militare di distruzione convenzionale di massa del governo israeliano nella striscia di Gaza, sotto indagine da parte della CIG dell'ONU per "intento genocidiario". Si tratta della barbara reazione del governo Netanyahu al 7 ottobre perpetrato da Hamas, una vendetta armata che ha sicuramente esorbitato ogni proporzione ed è come minimo imputabile di crimini di guerra.
Il contrasto stridente tra l'estetica della nonviolenza e la richiesta di violenza estrema non esige forse l'avvio di una riflessione?
Il movimento adotta i simboli classici del pacifismo radicale, che ha le sue espressioni storiche, ad esempio la WAR RESISTERS INTERNATIONAL di cui i Disarmisti esigenti fanno parte, per il tramite della Lega Obiettori di Coscienza: colori vivaci, bandane arcobaleno, simboli di pace, slogan come "Make Love Not War". Questi elementi comunicano un'adesione incondizionata alla nonviolenza, alla cooperazione e al dialogo come uniche vie per la risoluzione dei conflitti.
L'identità ostentata è quella di una forza antimilitarista e anti-interventista, che si oppone per principio all'uso della forza armata e all'azione militare statale.
Ma quando la situazione sul campo diventa drammatica (come nel caso del massacro di civili a Gaza, definiamolo pure "genocidio"), l'atteggiamento cambia radicalmente. Lo slogan "WHERE ARE THE ARMIES??" (o equivalente richiesta di intervento armato esterno) rivela un'inaspettata, e arrabbiata, fiducia nella soluzione militare.
Si invoca l'intervento armato di una potenza militare esterna per "fermare" il massacro, delegando di fatto la propria etica pacifista a un'azione di guerra che, per definizione, nega i principi di "pace" e contro "nonviolenza" precedentemente esibiti.
Chiariamo subito, a scanso di equivoci, che non è un appunto specifico che intendo rivolgere alla iniziativa della Global Sumud Flottilla; il pacifista esaltato e contraddittorio che prendo in giro appartiene a una frangia estremista di area attualmente molto gassosa, sostanzialmente poco definita. Sono frange estremiste che si vedono operare nelle chat dei social e, attualmente oscillanti e confuse, stanno maturando - io credo - una posizione più coerente e negativa nel senso che provo a criticare. Quindi è bene che io dica in modo chiaro e inequivocabile: non mi sto affatto riferendo alle posizioni ufficiali della Flottilla ma alle interpretazioni più o meno strutturate di queste frange "strane" e attualmente marginali di movimento... L'esperienza però insegna che le circostanze, talvolta manovrate, portano a far crescere i "piccoli mostri"...
Quanto qui prospettato non è però solo ipotesi teorica, è di fatto già accaduto se si guarda, ad esempio, alle reazioni suscitate dall'intervento del presidente della Colombia Gustavo Petro all'ONU. Del quale non è stata colta la complessità propositiva ma semplicemente l'appello a creare una forza militare che si contrapponga all'azione militare israeliana.
(In calce riportiamo due articoli. Uno di "pacifisti" in pratica entusiasti che si possa dichiarare guerra ad Israele, l'altro pubblicato su Il Manifesto, che affronta invece un approccio terzomondista discutibile, ma con basi politico/culturali da meditare).
Questo paradosso affonda le radici in diversi meccanismi psicologici e politici, che possiamo individuare nell'impulso morale, nella moralizzazione selettiva e nell'efficacia semplificata.
Per quanto riguarda il primo aspetto, cioè l'impulso morale, possiamo osservare che, di fronte a un'atrocità percepita come intollerabile (il "genocidio" o massacro), l'orrore morale supera la coerenza ideologica. Si cerca il modo più rapido e definitivo per far cessare il dolore, e l'unica forza percepita come capace di fermare un massacro su larga scala è un'altra forza militare superiore.
Per quanto riguarda la moralizzazione selettiva, è relativa alla rivelazione di due pesi e due misure rispetto al pacifismo professato. L'opposizione alla guerra è assoluta finché è una "loro" guerra o una guerra che non tocca determinate corde emotive. Quando un "cattivo" sta compiendo un atto orribile contro una vittima percepita come indifesa, la richiesta non è più "negoziare", ma "fermare", e questo spesso si traduce in "bombardare" o "intervenire con la forza".
Infine, a proposito dell'efficacia semplificata, possiamo dire che, in un mondo complesso, la richiesta di un intervento militare rapido si presenta come una soluzione concettualmente semplice e immediata. Questa determinazione permette all'attivista di mantenere una posizione di indignazione morale senza doversi confrontare con le sfumature e le difficoltà delle soluzioni diplomatiche o nonviolente sul lungo periodo.
Riepilogando, l'ironia amara che proponiamo potrebbe essere lo smascheramento di un pacifismo ideologico che, di fronte alla realtà della tragedia, si sgretola, rivelando una fiducia intrinseca (e incoerente) nel potere della forza armata per ristabilire un ordine morale.
Ma potremmo anche porre la situazione in questi termini: gli eredi di Hitler, che sono a capo di una entità illegittima che rappresenta il Male assoluto, non dovrebbero essere fermati con tutti i mezzi e ad ogni costo, pena la rinuncia, da parte di chi sa e vede ma non agisce, alla dignità dell'umano?
Con questo interrogativo si va al di là del semplice paradosso estetico e si tocca il nocciolo delle giustificazioni morali e politiche per l'intervento militare. Il dilemma che pone è: di fronte a un "Male assoluto", l'uso della forza armata, anche se ripugnante per un pacifista, diventa un imperativo morale ineludibile?
Nel ruolo convinto di animatore e coordinatore di una organizzazione quale i Disarmisti esigenti devo comunque esprimere una forte riserva su questa logica, e i motivi che mi sento di avanzare per non accettare la premessa che un intervento armato sia l'unica o la migliore risposta per "fermare il Male assoluto" sono molteplici e complessi.
Il concetto di "eredi di Hitler" o di una forza che rappresenta il "Male assoluto" è estremamente pericoloso se introdotto nel dibattito politico, con sullo sfondo la risposta militare.
Questo linguaggio semplificatorio annulla ogni sfumatura, ogni contesto storico, e la complessa natura del conflitto. Ridurre l'avversario a un'entità di male puro giustifica automaticamente qualsiasi azione contro di essa, incluse le atrocità.
Etichettare un intero gruppo (o la sua leadership) come "Male assoluto" è il primo passo verso la deumanizzazione, che storicamente ha preceduto i massacri e i crimini di guerra più efferati. Se l'avversario non è umano, non ci sono limiti etici su come si può agire contro di lui.
L'attivista che grida "WHERE ARE THE ARMIES??!" immagina un intervento chirurgico, rapido e senza conseguenze, un atto di pura giustizia che ferma il male e basta. Ma l'azione militare presenta effetti collaterali, specialmente nelle aree densamente popolate, come può essere, al pari di Gaza, la Palestina israeliana, per loro natura distruttiva e indiscriminata. Anche se l'obiettivo dichiarato è "fermare il genocidio", l'atto stesso dell'intervento (sia esso di una forza esterna legittima come i Caschi Blu) causerà altri massacri di civili, ampliando la tragedia, non concludendola.
La violenza genera solo altra violenza. La forma bellica è poi una dimensione organizzata che colloca la violenza in un salto di qualità strutturale, soprattutto in "era atomica". Un intervento armato, percepito come un'aggressione da una parte della popolazione, alimenta il ciclo di vendetta e garantisce che l'odio e il conflitto continueranno per la generazione successiva. Non pone fine alla causa del conflitto, ma solo a una sua manifestazione temporanea.
L'ironia del "pacifista armato" rivela una fondamentale incoerenza etica, perché è logica l'omogeneità mezzi-fini e non si può ignorare l'efficacia della forza morale e delle relazioni che può entrare nel campo delle forze.
Il Fine non giustifica i Mezzi: affermare la propria "dignità dell'umano" invocando un atto che viola la dignità umana di altri (la guerra e il massacro) è una contraddizione. Il pacifismo, nel suo senso più puro, sostiene che i mezzi devono riflettere il fine. Se l'obiettivo è la pace, il mezzo non può essere la guerra.
Alternative ignorate: la richiesta di intervento armato è spesso un modo per evitare di affrontare le vie nonviolente e complesse, ma necessarie: la pressione diplomatica, le sanzioni economiche, le indagini internazionali (come quella della CIG a cui abbiamo fatto riferimento), la creazione di corridoi umanitari, e il sostegno ai movimenti nonviolenti interni.
Accettare che "fermare il Male" con un intervento militare sia un imperativo morale rischia di legittimare escalation incontrollate e di pregiudicare in partenza la pianificazione e l'avvio di soluzioni durature.
Legittima l'escalation: si stabilisce un precedente per cui ogni potenza si sente moralmente obbligata a intervenire militarmente in nome di una presunta "giustizia superiore," minando la legge internazionale che mira proprio a limitare l'uso della forza.
Avalla l'assenza di soluzioni a lungo termine: le soluzioni militari offrono una falsa risoluzione. Non affrontano le cause profonde del conflitto (occupazione, assenza di autodeterminazione, disuguaglianza) e, una volta che le forze armate lasciano il campo, il vuoto di potere e le ragioni per l'odio spesso riemergono con forza ancora maggiore.
Rigettare l'idea che l'intervento militare sia l'unico modo per preservare la propria "dignità dell'umano" significa sostenere che la vera dignità sta nel resistere all'impulso di rispondere all'orrore con altro orrore, cercando attivamente soluzioni che, pur essendo più lente e difficili, non sacrificano i principi di nonviolenza e legalità internazionale.
Possiamo ancora insistere con questa predisposizione senza essere a nostra volta tacciati di essere "complici del genocidio"? Noi dobbiamo fare di tutto per fermarlo, tranne essere fomentatori di interventi che possono trascendere sul piano bellico.
Immaginiamo infine uno scenario che non mi sento di escludere, anzi. Stiamo forse rivivendo, nell'impazzimento collettivo Pro Pal, una parabola già attraversata, quella della fine del '68 che in Italia ha avuto la sua ultima fiammata nel Movimento del '77. Certe tendenze violentiste dell'Area Autonoma di allora aprirono la strada al terrorismo e ai cosiddetti anni di piombo. Vogliamo replicare la tragedia magari in forme da farsa, come accade, sentenzia Marx, con la Storia che si ripete?
Il passaggio da un movimento di protesta idealista a frange violente e terroristiche è un monito storico: la militarizzazione del dissenso distrugge la causa stessa.
Nel '68/'77, l'adozione di un linguaggio e di metodi violenti (prima simbolici, poi reali) portò all'isolamento del movimento dalla società civile e, infine, al terrorismo. Oggi, la richiesta urlata di un intervento armato ("WHERE ARE THE ARMIES?!") potrebbe rappresentare la farsa che precede la tragedia. È la stessa logica di accettazione della violenza come strumento politico efficace.
Quando l'attivista "pacifista" invoca gli eserciti, sta implicitamente legittimando l'uso della forza per scopi morali. Questo segnale può facilmente essere interpretato da frange estremiste interne come una licenza per militarizzare la loro protesta, portando a scontri, danni e, nel peggiore dei casi, a forme di terrorismo interno.
L'unico modo per evitare di ripetere la tragedia in forma di farsa è mantenere una linea di demarcazione netta tra il dissenso radicale (anche se esasperato) e la violenza. La richiesta di intervento militare, anche se esterna, è il punto di rottura di questa linea, un contagio ideologico della guerra che avvelena la protesta pacifica. Ecco che anche un meccanismo di "Uniting for peace" dobbiamo concepirlo in forma di pressione diplomatica, più che di coercizione imposta con la forza armata organizzata.
Adottata nel 1950 in risposta all'impasse del Consiglio di Sicurezza durante la Guerra di Corea, la risoluzione "Uniting for Peace" (Unione per la pace) afferma che, se il Consiglio di Sicurezza non riesce a mantenere la pace e la sicurezza internazionale a causa del veto di un membro permanente, l'Assemblea Generale ha il diritto di prendere in considerazione la questione e di raccomandare ai membri delle misure collettive, compreso l'uso della forza armata.
Questa risoluzione non conferisce all'Assemblea Generale il potere di imporre l'uso della forza, ma le permette di superare la paralisi del Consiglio di Sicurezza e di fornire un forte mandato morale e politico per un'azione militare o di peacekeeping. La proposta di una forza di "caschi bianchi" trova quindi un potenziale appiglio legale e politico in questo meccanismo, superando la sfida della legittimità internazionale che è logico sia sollevato.
Alla luce del meccanismo "Uniting for Peace", la creazione di una forza di "caschi bianchi" acquisisce nuovi punti di forza e presenta sfide diverse, nella sua capacità di pressione politica. L'azione non sarebbe percepita come un'iniziativa unilaterale di una "coalizione dei volenterosi", ma come l'espressione della volontà della maggioranza degli Stati membri dell'ONU, guadagnando una legittimità politica significativa. La semplice discussione della risoluzione "Uniting for Peace" metterebbe sotto forte pressione diplomatica le nazioni che si oppongono all'intervento.
(Ovviamente andrebbe considerato che, anche con un mandato, la gestione pratica di una forza del genere sarebbe complessa. La mancanza di una catena di comando e di un'infrastruttura logistica già esistente, a differenza di quella dei caschi blu dell'ONU, renderebbe l'organizzazione e il coordinamento delle operazioni estremamente difficili).
Per concludere, insistere sulla non-violenza e sulla legalità internazionale non è complicità, ma coraggio etico. Significa avere la lucidità di vedere che l'unica via d'uscita duratura da un ciclo di violenza e vendetta non può essere un altro atto di violenza, per quanto giustificato moralmente. Significa scegliere la legge invece del caos e la coerenza etica invece della disperazione emotiva.
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APPENDICE 1
https://spondasud.it/gustavo-petro-sfida-lordine-mondiale-un-esercito-per-fermare-il-genocidio/
Petro sfida l'ordine mondiale. "Un esercito per fermare il genocidio" -24 Settembre 2025.
(Federica Cannas) – Nella sala imponente dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il presidente colombiano Gustavo Petro ha sfidato l'ordine mondiale a viso aperto. Con voce ferma, ha denunciato il genocidio in Palestina e ha invocato la creazione di un "esercito di salvezza del mondo" per liberare Gaza. Non un'ennesima risoluzione, non una condanna formale, un esercito, un'azione concreta, un atto di rottura con la diplomazia che troppo spesso si rifugia nell'inerzia.
«Basta parole, è tempo della spada di Bolívar» ha detto. In quella frase c'è tutto il peso della storia latinoamericana, il richiamo a un continente che conosce bene il valore della libertà. Un appello diretto a paesi dell'Asia, dell'America Latina e alle grandi popolazioni slave che sconfissero Hitler, affinché si uniscano contro il potere militare e politico che sostiene l'occupazione israeliana.
Il gesto di Petro va letto per quello che è: un atto di coraggio politico. Perché parlare di genocidio davanti all'ONU, chiamare in causa Stati Uniti e NATO, non è un esercizio di diplomazia radicale. È un salto nel vuoto che può costare caro sul piano delle relazioni internazionali, ma che ha il merito di spezzare la complicità del silenzio.
La delegazione statunitense ha abbandonato l'aula durante il discorso. Un segnale che Petro ha colpito un nervo scoperto. Ha costretto a reagire. Non con repliche ma con la fuga.
Petro ha proposto un'alternativa. Ha chiesto che l'Assemblea Generale, senza la trappola del veto dei membri permanenti, voti la creazione di una forza armata internazionale per proteggere i palestinesi. Un'idea che può sembrare utopica, ma che porta con sé una sfida fondamentale: rimettere nelle mani del Sud globale la possibilità di intervenire laddove l'Occidente fallisce o, peggio, alimenta il conflitto.
Evocare Bolívar significa ricordare che la libertà non cade dal cielo, si conquista. Petro ha scelto di parlare non da capo di Stato isolato, ma come voce di un continente che ha memoria delle dittature, delle ingerenze, delle repressioni. E che ora propone un nuovo asse internazionale, capace di unire paesi spesso marginalizzati nelle logiche del potere mondiale.
Che questo esercito possa davvero nascere è incerto. Ma il valore simbolico del discorso non si misura nei blindati che vedremo domani, bensì nella frattura che ha aperto oggi. Petro ha scardinato l'idea che la diplomazia consista solo in condanne a porte chiuse, in dichiarazioni di principio che si dissolvono dopo poche ore.
La sua voce, con i richiami alla spada di Bolívar e alla resistenza dei popoli oppressi, ha segnato un passaggio storico con la chiamata all'azione. È un linguaggio che l'ONU non è abituata a sentire, un linguaggio che divide, scuote, obbliga a prendere posizione.
Ha preferito rischiare l'isolamento internazionale piuttosto che restare intrappolato nell'inerzia. Non sappiamo se il suo invito troverà risposte, ma sappiamo che nelle piazze, nei movimenti, nei popoli che guardano a Gaza come a una ferita aperta, il suo discorso verrà ricordato come un atto di coraggio raro.
La storia giudicherà se resterà un grido isolato o il seme di una nuova alleanza tra Sud globale e popoli oppressi. Di certo, il 24 settembre 2025 entrerà nei libri come il giorno in cui, all'ONU, un presidente latinoamericano ha osato dire: "Non più parole, ma azione".
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APPENDICE DUE
https://ilmanifesto.it/i-missili-cadono-dove-ce-la-poverta-allonu-gustavo-petro-attacca-trump
"I missili cadono dove c'è la povertà", all'Onu Gustavo Petro attacca Trump
Colombia All'assemblea generale il presidente esprime la sua solidarietà a Gaza e critica l'amministrazione Usa che per delegittimare la sinistra colombiana dichiara il Paese "non affidabile" nella lotta al narcotraffico. "La maggioranza dei narcotrafficanti sono bianchi e con occhi azzurri e accumulano le loro grandi ricchezze nelle banche più potenti del mondo. Non vivono a Bogotà, Caracas, nei Caraibi o in Palestina, ma a Miami a New York, a Parigi, a Madrid e a Dubai. Vivono dove c'è lusso"
Simone Scaffidi
Il 23 settembre Gustavo Petro ha dato il suo ultimo discorso da Presidente della Repubblica colombiana all'80° Assemblea generale delle Nazioni unite a New York. La condanna del genocidio in Palestina e delle politiche migratorie degli Stati uniti, insieme alla crisi climatica e alla lotta al narcotraffico sono stati i temi principali affrontati dal Presidente. Petro ha enfatizzato come si tratti di tematiche strettamente correlate tra loro, alimentate dal libero mercato, dal razzismo sistemico e dall'espansionismo militare del nord globale. "La maggioranza dei narcotrafficanti sono bianchi e con occhi azzurri e accumulano le loro grandi ricchezze nelle banche più potenti del mondo", ha incalzato Petro, "non vivono a Bogotà, Caracas, nei Caraibi o a Gaza ma vivono a Miami, sono vicini di casa del presidente degli Stati uniti, a New York, a Parigi, a Madrid e a Dubai, vivono dove c'è lusso, non la povertà. Ma i missili cadono dove c'è la povertà non dove c'è il lusso".
Ha quindi attaccato duramente Trump – sia nel suo discorso all'Assemblea che nella conferenza per il clima tenutasi il giorno precedente -, le sue politiche intimidatorie contro i migranti latinoamericani, le detenzioni arbitrarie e gli attacchi alle presunte imbarcazioni di narcotrafficanti che hanno provocato l'uccisione di almeno 17 persone latinoamericane a largo delle coste venezuelane: "Ci stanno mostrando che quello che succede a Gaza potrebbe succedere anche a noi. E lo stiamo già vedendo con i missili in America latina contro giovani disarmati che non hanno colpe".
Ha poi criticato il veto Usa: unico paese, il 18 settembre, a votare contro il cessate-il-fuoco nella Striscia di Gaza e ha definito Trump: uno "sciovinista con potere", affermando che "come esseri umani abbiamo il diritto alla ribellione contro il tiranno". Ha invitato a cambiare le regole dell'Onu per aggiustare gli squilibri che porta in seno il Consiglio di Sicurezza, che non permettono alla maggioranza degli stati di intervenire contro il genocidio in Palestina e ha proposto la creazione di un esercito della salvezza, che ha chiamato United for Peace, formato dalle forze militari dei paesi che non accettano di assistere inermi alla distruzione dell'umanità.
"Il mercato – ha aggiunto – non risolverà la crisi climatica perché è lo stesso mercato che l'ha prodotta", e si è scagliato contro le banche e il sistema finanziario: "Ci siamo sbagliati, le Nazioni unite si sono sbagliate, non ci sarà un capitalista buono che investirà nell'energia verde, non esiste il capitalismo verde. Il capitale investirà sempre nell'energia fossile a meno che qualcuno non lo vieti".
Nel suo intervento il presidente colombiano ha anche contestato la decisione presa dall'amministrazione Usa – il 15 settembre – di escludere la Colombia dalla lista dei paesi alleati nella lotta al narcotraffico. "Donald Trump – si legge infatti in un comunicato del dipartimento di Stato Usa – ha stabilito che il governo colombiano non ha rispettato i propri obblighi in materia di controllo delle droghe" e che la responsabilità di tale fallimento è da attribuirsi alla "disorientata leadership di Gustavo Petro", durante la quale "le coltivazioni di coca e la produzione di cocaina hanno raggiunto livelli storici".
Il 18 settembre, Petro ha risposto a Trump con un videomessaggio, dichiarando di considerare la misura come "un'ingiustizia, un insulto profondo al Paese che ha versato più sangue per permettere alle società di Stati uniti ed Europa di consumare un po' meno cocaina" e ha accusato Trump, ribandendolo all'Assemblea Generale dell'Onu, di cospirare con l'estrema destra colombiana residente a Miami per screditare il governo in vista delle elezioni del 2026. Petro ha poi rilanciato, sostenendo che durante il suo governo è stata sequestrata una quantità di cocaina superiore a quella degli ultimi tre governi di estrema destra e che il tasso di crescita delle coltivazioni di coca è passato dal +43% del 2021 ereditato da Duque, al 3% del 2024 sotto il suo governo.
Nonostante questa misura, come esplicitato dal dipartimento di Stato Usa, a livello pratico, per ora, le conseguenze non esistono, visto che è stata concessa una deroga che conferma la continuazione della cooperazione finanziaria e militare in materia di lotta al narcotraffico tra i due paesi. L'esclusione dalla lista ha dunque la forma di un chiaro messaggio politico, un avvertimento contro il governo Petro e l'ala progressista del Paese, con il fine di delegittimare l'operato del primo governo di centro-sinistra della storia repubblicana colombiana, influire sulle elezioni presidenziali previste per maggio 2026 e favorire l'elezione di un Presidente di estrema destra fedele agli interessi degli Stati uniti.
Con Trump, l'ingerenza – mai sopita – degli Usa nella politica latinoamericana è tornata a essere più esplicita e aggressiva a tutti i livelli. Seppur si tratti, per ora, di una misura esclusivamente politica, che non ha prodotto morte o bombardamenti, escludere la Colombia dalla lista dei paesi alleati nella lotta al narcotraffico rientra nella logica espansionistica e intimidatoria attuata da Trump da quando è stato rieletto. Il veto al cessate-il-fuoco a Gaza, i missili contro le imbarcazioni nei Caraibi, l'esclusione della Colombia dai paesi alleati nella lotta al narcotraffico: cambia l'entità e l'intensità della violenza ma non cambia la rotta di una politica internazionale repressiva del sorvegliare e punire. Contro il più debole, per i propri interessi economici e militari, fino a quando non si piegherà.