La "resistenza palestinese" è tutta da costruire. Ed il movimento ha da liberarsi dalle catene ideologiche che lo rendono cieco sul fondamentalismo islamico...

🇵🇸 🇮🇱 Un progetto per chi crede nella pace tra "nemici" che devono diventare "amici" - di Alfonso Navarra (30 ottobre 2025)
Bisogna tornare a pensare con chiarezza, ad unire mente e cuore. I nonviolenti, intesi come coloro che "poieticamente" aggiungono il buon senso, che è altra cosa del senso comune, alla politica politicante, se vogliono incidere, devono costruire insieme un percorso che tenga insieme etica e strategia. Basta con le urla, con le parole vuote, con le "iniziative sumud" (cioè resilienti e perseveranti), di nome ma non di fatto. Serve un progetto concreto, che parta da ciò che è eticamente e strategicamente irrinunciabile: la violenza contro i civili non è mai legittima, l'intolleranza è un vicolo cieco, l'antagonismo politico tra i sinceri "sperimentatori di verità" è un ostacolo da superare. Per l'unità buona e laica delle forze, non l'unità delle "forze buone" per definizione e autoproclamazione.
Il nostro compito è trasformare le emozioni, anche le più nobili, ma dall'impatto momentaneo, in proposta meditata e di lungo periodo. Non basta dire "Palestina libera" o "Israele genocida". Bisogna indicare una via. Una via che tenga insieme i due popoli, in una coesistenza che deve diventare cooperazione; e che dia forza a chi, da entrambe le parti, vuole parlare, non sparare.
In Palestina, c'è chi resiste davvero. Non con i razzetti sparacchiati a caso, ma con la dignità. Marwan Barghouti è uno di questi. È in carcere, ma non ha smesso di credere nei due popoli e nei due Stati. Sostenerlo non è un gesto simbolico: è scegliere attivamente le tendenze e i comportamenti da appoggiare. È dire che la resistenza non è terrorismo, non è fondamentalismo, e che Hamas non può parlare a nome di tutti i gazawi e i palestinesi. Meno che mai del pacifismo internazionale. È dare voce a chi vuole libertà e giustizia, non vendetta.
In Israele, c'è chi lotta contro il governo di Netanyahu. Contro l'odio, contro l'espansione, contro la paura. L'opposizione progressista, i movimenti pacifisti, gli obiettori, i renitenti, le donne e gli uomini che scendono in piazza per la democrazia: sono loro i nostri interlocutori. Non vanno ignorati, né confusi con chi bombarda Gaza. Vanno sostenuti, perché la pace si costruisce anche lì. Si costruisce puntando a vincere contro il fondamentalismo sionista alle elezioni del novembre 2026.
Infine, noi, coinvolti da "cittadini del mondo". Non serve improvvisare. Non servono gesti teatrali, né slogan gridati. Serve una campagna seria, con obiettivi chiari: liberare Barghouti, partner di pace come Mandela, obiettivo da fare assumere alla stessa opposizione israeliana, mandare a casa Netanyahu, creare ponti tra le società civili. Non per fare i mediatori estranei, ma per essere presenti da "equivicini". Per dire che la pace è possibile, se si smette di scegliere il nemico e si comincia a scegliere l'umano.
Il testo che viene proposto si articola nelle seguenti sezioni:
1 - La "Resistenza palestinese": superare la frammentazione è condizione sia di spessore politico, sia di legittimità etico/legale
2- Quando la protesta si fa dogma: il fronte Pro-Pal tra slogan e delegittimazione della tregua che non è pace
3- La deriva ideologica e la violenza del linguaggio. Occhio alla spirale lotta-repressione
4 - Il dovere di costruire un argine nonviolento integrando strategia e principi etici
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Estratto delle sezioni
1 - La "Resistenza palestinese": superare la frammentazione è condizione sia di spessore politico, sia di legittimità etico/legale
La cosiddetta "resistenza palestinese" non è un soggetto unitario come le storiche resistenze armate (es. italiana, cubana, vietnamita), ma un termine ombrello che copre una galassia eterogenea e spesso conflittuale di attori. Rimane controversa l'effettiva autonomia di questi attori, con particolare riferimento alla dipendenza geopolitica di gruppi come Hamas da influenze statuali esterne.
La questione cruciale è se un'entità così frammentata tra ANP e regime islamista a Gaza e con gruppi responsabili di gravi violazioni possa essere considerata "resistenza armata legittima" in un conflitto asimmetrico. La legittimità si fonda su due pilastri in tensione: uno è relativo al diritto internazionale, l'altro riguarda la legittimità/moralità politica della causa.
Per il diritto internazionale la legittimità della resistenza si basa principalmente sul diritto all'autodeterminazione dei popoli (riconosciuto da Risoluzioni ONU e Protocolli di Ginevra I) contro occupazione o dominazione. E occorrono requisiti per lo status di combattente che viene attribuito ai resistenti. Per non essere etichettati come "terroristi", i membri della resistenza devono rispettare il Diritto Internazionale Umanitario (DIU), che richiede il rispetto delle leggi di guerra, in particolare Principio di Distinzione (non colpire direttamente i civili).
Le azioni come gli attacchi del 7 ottobre 2023, caratterizzate da uccisioni, violenze e sequestri sistematici di civili non combattenti (pogrom), costituiscono una grave violazione del DIU. Gli atti estremi commessi (torture, stupri, presa di ostaggi) comportano la perdita dello status di combattente legittimo per gli autori, rendendoli passibili di essere perseguiti per crimini internazionali. (E difatti la CIP ha spiccato mandati di cattura per i leader di Hamas).
Conclusione: la legittimità di una causa politica non può mai giustificare la commissione di crimini di guerra o crimini contro l'umanità contro i civili.
2- Quando la protesta si fa dogma: il fronte Pro-Pal tra slogan e delegittimazione della tregua che non è pace
Il movimento Pro PAL, una grande ondata emotiva in corso, è caratterizzato da una retorica polarizzata e totale, soprattutto nelle sue componenti più estreme (attualmente egemoni grazie al ruolo delle "Flottiglie"):
Obiettivo: la "Palestina libera dal fiume al mare" vista come parte di un'"Intifada globale contro l'imperialismo dell'Occidente" e che implica la cancellazione dell' "entità sionista" (accusata di essere imperialista, razzista, ecc.).
Rifiuto della soluzione: le tregue o i piani diplomatici (es. piano Trump) sono sconsideratamente rigettati come mero "secondo tempo del genocidio che continua". Il precario cessate il fuoco è visto come ciò che "completerà ciò che il genocidio non è riuscito sinora a fare."
Attivismo diffuso: la mobilitazione coinvolge sindacati di base, studenti (con slogan come "Palestina libera dal fiume al mare"), VIP testimonial (es. Rula Jebreal, autrice di Genocidio), e si manifesta anche in grandi cortei (es. quelli della CGIL), con una forte presenza di simboli radicali.
Questo trip ideologico coinvolge ampi settori del centrosinistra, creando tensioni interne e alleanze.
Partito Democratico (PD): La Segretaria Elly Schlein incarna la tensione istituzionale. Mantiene formalmente una linea "progressista" (condanna Hamas, chiede protezione civili a Gaza), ma il suo ruolo principale è "gestire la base" e partecipare alle manifestazioni per non cedere terreno alle sinistre radicali. Questo equilibrio la espone a critiche sia dai moderati che dai radicali.
Movimento 5 Stelle (M5S): Giuseppe Conte è dibattuto tra l'onda emotiva che chiede "giustizia su Gaza" e posizioni più misurate ed equilibrate.
Alleanza Verdi-Sinistra (AVS): Rappresenta la linea più radicale all'interno del "campo largo", che spinge sul tema della "chiamata in correità degli Stati terzi" che supportano Israele con armi.
CGIL: Maurizio Landini funge da sponda istituzionale e contenitore di proteste. Sebbene la CGIL condanni formalmente il terrorismo, fornisce una cassa di risonanza per le critiche radicali, denunciando duramente l'azione di Israele come "genocidio che continua" e chiedendo un cessate il fuoco immediato. La sua leadership tollera di fatto e incanala gli slogan più estremi nelle proprie manifestazioni.
Queste posizioni di base, caratterizzate dalla negazione di ogni soluzione di compromesso e dalla demonizzazione totale di Israele/Occidente, forniscono il retroterra giustificatorio per gli atti di intolleranza. L'esempio più emblematico è il blitz della minoranza studentesca all'Università di Venezia che ha impedito a Emanuele Fiano (presidente di "Sinistra per Israele" e sostenitore dei "due popoli due Stati") di parlare. Questo atto è visto come la logica conseguenza di una retorica che considera chiunque proponga anche in modo discutibile il dialogo e la coesistenza un nemico da zittire.
3- La deriva ideologica e la violenza del linguaggio. Occhio alla spirale lotta-repressione (in gran parte ancora da scrivere)
L'entusiasmo polarizzato del "movimento Pro Pal", pur nascendo da una legittima preoccupazione per la sofferenza palestinese, rischia di deviare verso un manicheismo dannoso che annulla la complessità. Si sostituiscono le analisi con lo slogan, su deumanizza l'avversario, si negano le opportunità che la complicata situazione geopolitica pur tuttavia presentano.
Il nodo cruciale - è l'ipotesi che si cerca di argomentare - è forse la sottovalutazione anche nei settori più moderati, della minaccia costituita fondamentalismo islamico, premiato in questa congiuntura politica con la patente del "resistente legittimo", che crea una distorsione ideologica rendente accettabile e persino "necessario" zittire chiunque proponga il dialogo.
4 - Il dovere di costruire un argine nonviolento integrando strategia e principi etici
L'invito è a lavorare insieme - i nonviolenti - per strutturare un quadro concettuale che integri in modo coeso i ragionamenti sviluppati in precedenza sulla legittimità, l'intolleranza e la frammentazione politica con le proposte strategiche da individuare e di cui si abbozzano alcune linee da sviluppare.
L'obiettivo è trasformare la critica ideologica del "trip palestinese" in un progetto politico costruttivo focalizzato sul sostegno a entrambi i poli del dialogo: la leadership alternativa in Palestina e l'opposizione progressista in Israele.
Con l'idea dell'Ambasciata di pace con i due uffici (a Tel Aviv e a Ramallah) si focalizza l'attenzione su Marwan Barghouti (e, per estensione, sulle persone comuni sia a Gaza, sia in Cisgiordania) per formulare la risposta diretta alla necessità di ricostruire la "resistenza palestinese" in termini di significato e consistenza reali, sfuggendo alle mitologie.
Questa idea si lega al contributo per la qualificazione dell'opposizione progressista in Israele, che può vincere le elezioni previste per il novembre 2026.
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🇵🇸 La "Resistenza palestinese": superare la frammentazione è condizione sia di spessore politico, sia di legittimità etico/legale
La cosiddetta "resistenza palestinese" non costituisce un soggetto unitario, come lo furono in passato la Resistenza italiana, quella cinese sotto Mao, la guerriglia vietnamita guidata da Ho Chi Minh e da Giap, quella cubana sotto Fidel Castro e Che Guevara, o la lotta armata dell'African National Congress. Si tratta piuttosto di un termine ombrello che raccoglie una galassia eterogenea e spesso conflittuale di attori.
Sebbene la causa palestinese goda di un riconoscimento internazionale attraverso l'OLP e lo Stato di Palestina (in qualità di osservatore ONU), la sua forza politica e operativa è indebolita da profonde divisioni interne — in particolare tra l'Autorità Palestinese/Fatah e gruppi come Hamas e la Jihad Islamica Palestinese — e da una dinamica competitiva tra fazioni armate.
Rimane inoltre aperta la questione dell'autonomia effettiva di questi attori rispetto a influenze statuali esterne, un nodo particolarmente controverso nel caso di Hamas, che rappresenta un esempio emblematico di dipendenza geopolitica.
Il concetto copre, come si è già accennato:
Organizzazioni politiche/militari: diverse fazioni con obiettivi e strategie concorrenti (armate o negoziali). Abbiamo gruppi come l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) – che include la fazione dominante Fatah e diverse fazioni minori (FPLP; FDPLP...)– e gruppi islamisti come Hamas e la Jihad Islamica Palestinese (JIP). Questi gruppi hanno obiettivi, strategie (armate o negoziali) e spesso governi concorrenti (l'Autorità Palestinese in Cisgiordania e Hamas a Gaza).
Azione nonviolenta: abbiamo forme di resistenza basate sulla presenza sul territorio e sul dialogo, e l'azione nonviolenta contro l'occupazione e gli insediamenti specialmente in Cisgiordania.
Limiti della legittimità armata
La domanda cruciale è se un'entità così frammentata e disomogenea, che include gruppi responsabili di gravi violazioni, quali il pogrom del 7 ottobre 2023, possa rivendicarsi quale "resistenza armata legittima" in un conflitto asimmetrico.
La legittimità del ricorso alla forza si fonda su due pilastri, spesso in tensione:
Diritto internazionale (legale): si basa sul diritto all'autodeterminazione dei popoli (riconosciuto dall'ONU) e sullo Status di combattente. Quest'ultimo richiede l'obbligo di rispettare il Diritto Internazionale Umanitario (DIU), operare sotto un comando responsabile e, soprattutto, attenersi al Principio di distinzione (attaccare solo obiettivi militari).
Legittimità morale/politica: riguarda la giustizia della causa (Jus ad Bellum) come ultima risorsa contro l'oppressione e il rispetto della proporzionalità e necessità dell'azione.
il principale fondamento legale risiede nel diritto all'autodeterminazione dei popoli. Le risoluzioni dell'ONU e i Protocolli Aggiuntivi alle Convenzioni di Ginevra (in particolare il I Protocollo) hanno riconosciuto la legittimità della lotta armata dei popoli contro la dominazione coloniale, l'occupazione straniera e i regimi razzisti.
Analizziamo ora più nello specifico lo status di combattente, che permette ai membri di una resistenza armata di essere riconosciuti come "combattenti legittimi" anziché etichettati come "terroristi". Tale riconoscimento si fonda sul rispetto di criteri precisi stabiliti dal diritto internazionale umanitario:
Indossare un'uniforme o un segno distintivo chiaramente visibile, che consenta l'identificazione sul campo.
Portare le armi in modo palese, evitando l'occultamento o l'inganno.
Agire sotto una catena di comando responsabile, in grado di garantire disciplina e controllo operativo.
Rispettare le leggi e le consuetudini di guerra, in particolare il principio di distinzione, che impone di non colpire direttamente la popolazione civile.
Per quanto attiene la legittimità Morale/Politica, vanno considerati due aspetti:
Giustizia della causa (Jus ad Bellum): la resistenza è considerata legittima quando è l'ultima risorsa contro una grave ingiustizia, come l'occupazione, l'oppressione sistematica o la negazione dei diritti fondamentali.
Proporzionalità e necessità: l'azione armata deve essere proporzionata all'obiettivo e strettamente necessaria per raggiungere la liberazione o la difesa.
Il caso del 7 Ottobre e i crimini di Guerra
Nei conflitti asimmetrici, rispettare il DIU è difficile (es. a causa del mescolamento con i civili), ma è un requisito irrinunciabile per la legittimità.
Le azioni come gli attacchi del 7 ottobre, caratterizzate da uccisioni, violenze e sequestri sistematici di civili non combattenti, costituiscono gravi violazioni del DIU:
Violazione del principio di distinzione: gli attacchi diretti e intenzionali contro la popolazione civile (i pogrom) sono universalmente riconosciuti come crimini di guerra (secondo lo Statuto di Roma della CPI), indipendentemente dalla giustezza della causa politica.
Perdita dello status di combattente: tali atti estremi (uccisioni sommarie, torture, stupri, presa di ostaggi civili) fanno perdere ai loro autori lo status di combattenti legittimi, rendendoli passibili di essere perseguiti per crimini internazionali.
In conclusione, la legittimità di una causa politica non può mai giustificare la commissione di crimini contro l'umanità o di guerra contro i civili.
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Quando la protesta si fa dogma: il fronte Pro-Pal tra slogan e delegittimazione della tregua che non è pace
Premesso ciò, nel movimento entusiasmato dal trip della "Palestina libera", in cui "siamo tutte/i palestinesi, "tutte/i impegnati nell'Intifada globale contro l'imperialismo dell'Occidente", tutte/i per la cancellazione della "entità sionista" (imperialista, colonialista, razzista, suprematista ... e chi più ne ha più ne metta), tutte/i "equipaggi di terra" delle varie flottille, l'idea è di considerare sconsideratamente la tregua imposta da Trump a Sharm in Egitto non come un passo che apre possibilità più serie di pace, ma niente altro che "il secondo tempo del genocidio che continua".
La tesi di fondo per conto del cd "movimento Pro Pal" l'ha svolta all'ultima Perugia-Assisi Francesca Albanese, ed è che "la parola pace completerà ciò che il genocidio non è riuscito sinora a fare".
Questo tipo di critica distruttiva abbraccia sorprendentemente un pezzo di centrosinistra politico (alla ricerca del "campo largo" contro il centrodestra, o destracentro), con in più il falcemartellismo residuo di piccole formazioni come Rifondazione Comunista, Potere al Popolo e partitini affini; e coinvolge sia i sindacati di base, che si sono ritrovati a fare da iniziale punto di riferimento per una ampia mobilitazione popolare; sia le flottiglie internazionali che hanno funzionato da calamita mediatica e catalizzatori di una nuova vulgata retorica; sia i tanti che occupano le scuole gridando "Palestina libera dal fiume al mare", ma anche gli spontanei sbandieratori nero-rosso-verdi, gente comune presente in massa il 21 settembre e al corteo della CGIL contro la manovra economica del governo Meloni.
Tra i VIP che fungono da testimonial del genocidio da denunciare possiamo annoverare cantanti, attori, scrittori, giornalisti, per lo più attivati dalla moda del momento.
Prendiamo Rula Jebreal, che ha appena dato alle stampe, per i tipi della Feltrinelli, "Genocidio". Si dichiara convinta che "il cessate il fuoco a Gaza non reggerà", che "Israele non vuole la pace ma il dominio", che il piano Trump sia di fatto carta straccia.
Prendiamo, nel PD, la posizione della segretaria Elly Schlein, che incarna benissimo la tensione istituzionale all'interno del partito e del "campo largo". Schlein ha mantenuto la linea "progressista", condannando Hamas e chiedendo al contempo la protezione dei civili a Gaza. Il suo ruolo è quello di "gestire la base" (la tendenza a voler "partecipare alle manifestazioni" per non lasciare il terreno alle sinistre radicali) pur mantenendo l'ancoraggio istituzionale. Questo equilibrio, tuttavia, la espone alla critica sia dei moderati nel suo partito che la trovano troppo debole, sia dei radicali che la ritengono insufficiente se non si spinge ad usare toni come quelli di AVS o M5S.
Prendiamo Giuseppe Conte, del M5S, un po' più pacato rispetto a certe posizioni estreme del trip filo resistenza palestinese, ma dibattuto tra l'onda emotiva che preme "perché sia fatta giustizia su Gaza" e le sue tendenze pro Trump ai tempi in cui governava da premier.
Prendiamo gli AVS che agitano, contro la Meloni, il tema della chiamata in correità degli "Stati terzi" che hanno supportato anche con le armi Netanyahu.
Prendiamo Maurizio Landini, segretario della CGIL, che - spiazzato all'inizio dai sindacati di base, incarna il ruolo di sponda istituzionale e contenitore di proteste movimentiste per le istanze della sinistra, inclusa l'ala più accesa dell'ondata emotiva "Pro Pal", pur mantenendo una linea ufficiale che formalmente condanna il terrorismo e sostiene la soluzione diplomatica.
La CGIL, sotto la guida di Landini, fornisce una legittimazione e una cassa di risonanza fondamentali per le critiche radicali, rispecchiando i seguenti elementi del "trip" ideologico:
Critica forte a Israele e all'Occidente: Landini ha assunto un tono estremamente critico nei confronti della risposta militare israeliana a Gaza, denunciando il massacro di civili e l'emergenza umanitaria in termini molto duri. Questo si allinea alla narrazione di chi considera la tregua insufficiente o l'azione di Israele come un "genocidio che continua".
Richiesta di cessate il fuoco immediato: la CGIL ha chiesto più volte un cessate il fuoco immediato e incondizionato, mettendosi in sintonia con le richieste dei movimenti di piazza e dei partiti come M5S e AVS.
Contenitore di protesta: le manifestazioni organizzate dalla CGIL su temi economici (come quella contro la manovra del Governo Meloni) sono diventate, come osservato nel testo, il luogo fisico dove le frange più estreme del movimento "Pro Pal" (gli "sbandieratori nero-rosso-verdi") possono riversare la propria agenda e i propri slogan, inclusi quelli più radicali e anti-sionisti. Landini e la CGIL, pur non sposando ufficialmente gli slogan più estremi, tollerano e incanalano questa componente di protesta all'interno dei loro eventi.
Sono queste le posizioni di base che, alla fin fine, forniscono il retroterra giustificatorio al blitz della minoranza studentesca all'Università di Venezia "contro i sionisti" che, con protesta degna di miglior causa, hanno impedito a Emanuele Fiano, presidente di "Sinistra per Israele", di parlare per i "due popoli due Stati".



La tregua è sempre appesa a un filo. Ma regge e con molte probabilità ancora reggerà
Il 28 ottobre abbiamo visto nuovi "raid massicci" sulla Striscia ordinati da Netanyahu: il premier israeliano aveva accusato Hamas di violazione delle intese dopo che i miliziani islamisti avrebbero consegnato i resti di un ostaggio il cui corpo era già stato recuperato in precedenza.
Gli USA si sforzano di minimizzare tutta la faccenda e, infatti, un dispaccio ANSA della mattina del 29 ottobre riferisce che il cessate il fuoco sarebbe rientrato in vigore.
Secondo quanto riferisce l'Agenzia stampa, "la protezione civile e gli ospedali di Gaza gestiti da Hamas affermano che i raid israeliani, avvenuti durante la notte e questa mattina prima del ripristino del cessate il fuoco, hanno ucciso più di 100 persone in tutta la Striscia, tra cui diversi bambini. Fonti mediche nella Striscia di Gaza affermano che gli attacchi hanno preso di mira, tra le altre località, il campo profughi di Bureij nel centro di Gaza, il quartiere Sabra di Gaza City e Khan Yunis. Israele ha vietato al Comitato Internazionale della Croce Rossa di visitare i prigionieri palestinesi detenuti in base a una legge che prende di mira i 'combattenti illegali': lo ha dichiarato il ministro della Difesa Israel Katz".
Il vicepresidente USA JD Vance, appunto, minimizza e si dice fiducioso che "la pace resisterà, nonostante le scaramucce".
L'ottimismo, per quanto cauto come quello espresso da Vance, si fonda principalmente sulla persistenza dell'interesse strategico di tutti gli attori chiave, nella Regione e fuori Regione, a mantenere aperto un canale di mediazione e a evitare un collasso totale degli accordi di tregua.
Ecco i principali motivi per i quali si potrebbe condividere un cauto ottimismo sulla tenuta del cessate il fuoco e della pace.
Il primo motivo è legato alle dinamiche della pressione internazionale e degli interessi geopolitici. La tregua e i negoziati sugli ostaggi sono il risultato di intensi sforzi diplomatici guidati da Stati Uniti, Egitto e Qatar. Per queste potenze, il successo della tregua è una priorità geopolitica e diplomatica. Gli Stati Uniti, in particolare, esercitano la massima pressione su Israele per contenere la portata e la durata delle operazioni. Il fatto che gli USA "minimizzino" le scaramucce indica una chiara volontà politica di non permettere che gli incidenti facciano deragliare il processo. Per Vance, l'obiettivo non è la pace perfetta, ma la stabilità minima necessaria per continuare i negoziati. La tregua, anche se violata, è l'unico canale che consente l'ingresso essenziale di aiuti umanitari e carburante a Gaza, una condizione che la comunità internazionale (e gli stessi mediatori) ritiene irrinunciabile per prevenire una catastrofe ancora maggiore. Finché questo flusso è la priorità, la tregua avrà una funzione pragmatica.
🇮🇱 Il secondo motivo è legato allo stesso interesse Strategico di Israele. Nonostante le presunte violazioni di Hamas, l'obiettivo primario di Israele rimane il recupero, anche parziale, dei restanti corpi degli ostaggi deceduti. Finché c'è la possibilità di ottenerli tramite scambi, la via diplomatica non verrà chiusa del tutto. Ogni volta che una tregua fallisce, la possibilità di recuperare questi corpi degli ostaggi diminuisce drasticamente. Questa priorità della questione ostaggi è derivata dall'orientamento dell'opinione pubblica israeliana che esercita su questo punto una enorme pressione. Il governo di Netanyahu è sotto pressione interna per la gestione della guerra e, appunto, della crisi degli ostaggi. Un'escalation totale senza corpi degli ostaggi recuperati minerebbe ulteriormente la già traballante legittimità politica di Natanyahu. Un cessate il fuoco, anche temporaneo, può offrire un margine di manovra politico e diluire la pressione.
Una notizia importante è quella che ci sarebbero nuove elezioni in Palestina entro un anno e sarebbe stato deciso così in Egitto in una riunione tra le fazioni presente e consenziente Hamas.
Lo riferisce Matteo Giusti sul quotidiano La VERITA' del 28 ottobre 2025. ( Si vada su: https://www.laverita.info/palestina-elezioni-2674238847.html )
Ecco delle info che ricaviamo dall'articolo:
"(Le principali fazioni palestinesi) si sono riunite al Cairo, dove sotto la regia del governo egiziano, hanno trovato un accordo per un nuovo governo palestinese. (...) Hamas, che ha partecipato a questo meeting, non potrà prendere parte a nessun governo così come i suoi stretti alleati della Jihad islamica (...) E' stata decisa una strategia unitaria per rilanciare l'OLP , unico e legittimo rappresentante del popolo palestinese (...) Entro un anno dovrebbero tenersi elezioni sia parlamentari che presidenziali. I palestinesi hanno bisogno di unità: è necessario creare un unico governo, un unico esercito e soprattutto deve essere chiaro chi ha il monopolio della forza: basta con le fazioni armate (...) Il presidente Abu Mazen ha emesso un decreto che permette la candidatura a chiunque abbia un chiaro programma politico che eviti ogni forma di violenza e di divisione (...) Tutte le fazioni hanno firmato una dichiarazione in cinque punti. Il primo punto prevede di continuare a sostenere il cessate il fuoco e l'apertura di tutti i valichi di Gaza. Il secondo, la creazione di un governo tecnocratico della Striscia, il terzo l'istituzione di un comitato internazionale per il finanziamento e la ricostruzione, il quarto e il quinto impegnano tutti a mantenere la responsabilità e a dare un governo duraturo alla Palestina".
La deriva ideologica e la violenza del linguaggio
L'entusiasmo polarizzato del "movimento Pro Pal", pur nascendo da una legittima preoccupazione per la sofferenza palestinese, rischia di deviare verso un manicheismo dannoso che annulla la complessità:
Sostituzione dell'analisi con lo slogan: l'adozione di formule totalizzanti come "Palestina libera dal fiume al mare" o la tesi che la pace sia solo il "secondo tempo del genocidio" eliminano la possibilità del dialogo e della soluzione politica. Tali slogan non aprono a soluzioni complicate ma realistiche (come la prospettiva "due popoli, due Stati"): mirano, al contrario, spesso nella inconsapevolezza di chi li pronuncia, alla cancellazione violenta di una delle parti, rendendo il conflitto assoluto e irrisolvibile.
De-umanizzazione dell'avversario: l'uso costante di termini come "entità sionista imperialista/colonialista/razzista" trasforma l'avversario da soggetto politico con cui negoziare in un male assoluto da estirpare. Questa de-umanizzazione è il primo passo verso la violenza fisica e giustifica qualsiasi forma di "resistenza" senza distinzione etica, ignorando la lezione del DIU (Diritto Internazionale Umanitario) sul principio di distinzione.
La negazione della tregua come opportunità: rifiutare a priori la tregua imposta (come quella di Sharm) come "carta straccia" o "continuazione del genocidio" nega il valore strategico del cessate il fuoco – anche imperfetto – come unico strumento concreto per l'arrivo degli aiuti umanitari e per creare una finestra di possibilità diplomatica. Si antepone la purezza ideologica alla necessità pratica di salvare vite.
Il nodo cruciale - è l'ipotesi che si cercherà di argomentare - è forse la sottovalutazione anche nei settori più moderati, della minaccia costituita fondamentalismo islamico, premiato in questa congiuntura politica con la patente del "resistente legittimo", che crea una distorsione ideologica rendente accettabile e persino "necessario" zittire chiunque proponga il dialogo.
La Deformazione ideologica del conflitto
Le posizioni radicali (del "trip palestinese" o "movimento Pro Pal") tendono a operare attraverso una logica manichea, riducendo la realtà a una lotta semplicistica che esclude il fattore fondamentalista:
Visione unilaterale: il conflitto viene letto esclusivamente attraverso la lente del colonialismo/imperialismo occidentale contro un popolo indigeno oppresso. In questa narrazione, la causa di tutti i mali è solo ed esclusivamente l'Occidente, Israele (etichettato come "entità sionista") e i suoi sostenitori.
Marginalizzazione del fondamentalismo: le azioni di gruppi come Hamas, che sono esplicitamente guidate da un'ideologia religiosa e politica fondamentalista con l'obiettivo dichiarato di distruggere lo Stato di Israele e istituire uno Stato islamico, vengono minimizzate, giustificate o ignorate. Vengono ricondotte unicamente a "atti di resistenza" contro l'occupazione, perdendo di vista la loro natura totalitaria e anti-democratica.
L'opposizione al dialogo: il fondamentalismo, per sua natura, rigetta la coesistenza e la mediazione. Nel momento in cui il movimento "Pro Pal" minimizza questa minaccia, finisce per allinearsi involontariamente con l'obiettivo estremista di negare la possibilità della pace negoziata e della soluzione "due popoli, due Stati".
La sottovalutazione del fondamentalismo è ciò che rende un attacco contro un sostenitore, sia pure discutibile, del dialogo come Fiano logicamente coerente, sebbene eticamente e democraticamente inaccettabile:
Identificazione del "vero nemico": se il problema è solo l'oppressione coloniale occidentale, allora chiunque proponga un compromesso (come la "due popoli due Stati", che prevede l'esistenza di Israele) non è visto come un mediatore, ma come un collaboratore del potere imperialista, un "sionista" paranazista da neutralizzare.
Il ruolo di Fiano: Emanuele Fiano (Presidente di "Sinistra per Israele" e sostenitore dei "due popoli due Stati") diventa, in questa logica distorta, un nemico più insidioso del Governo Meloni o Netanyahu stesso, perché offre una via d'uscita democratica e negoziata che minaccia la purezza ideologica della lotta radicale ("dal fiume al mare").
Violenza come unica risposta: se si crede che la pace (il dialogo) sia solo "il secondo tempo del genocidio" – come suggerito dalla tesi di Francesca Albanese –, allora l'unica risposta "onorevole" e "resistente" diventa l'imposizione della propria narrativa (il silenzio imposto a Fiano) e la violenza politica, annullando il principio democratico della libertà di parola.
Il Dovere di costruire un argine nonviolento
La conseguenza più pericolosa di questa sottovalutazione del fondamentalismo islamico è il fallimento nel costruire un argine etico contro l'estremismo:
Mancanza di condanna unitaria: quando forze politiche di sinistra o sindacali (come CGIL, PD, M5S, AVS) non condannano in modo netto e congiunto l'antisemitismo, l'intolleranza e la violenza che si manifestano nelle loro piazze, forniscono, anche involontariamente, un tappeto rosso alle frange più estremiste.
Il primo passo: non riconoscere che la minaccia fondamentalista esiste e che i suoi metodi (pogrom, attacco ai civili, negazione dell'altro) non possono mai essere legittimati – nemmeno in un conflitto asimmetrico – porta a giustificare il disprezzo per la democrazia e il dialogo, rendendo atti come il blitz non "eccessi", ma l'applicazione logica di una premessa ideologica errata.
In conclusione, l'incapacità di queste posizioni di confrontarsi con la natura ideologica e violenta del fondamentalismo islamico permette loro di dipingere la soluzione negoziata come tradimento e il dialogo come "atto sionista", creando il clima perfetto per l'intolleranza.
La critica degli episodi che si andranno accumulando, creando la spirale lotta-repressione, non deve fermarsi alla condanna, ma deve essere propositiva, specialmente per i nonviolenti e per la società democratica:
Rifiuto dell'intolleranza fisica e verbale: l'episodio di intolleranza, come il blitz studentesco che, all'università di Venezia, impedisce a Emanuele Fiano (o chiunque altro) di parlare della soluzione "due popoli, due Stati", dimostra che la violenza verbale degli slogan si traduce rapidamente in violenza politica e fisica (imposizione del silenzio, prevaricazione). È imperativo che le forze democratiche (dalla CGIL ai partiti di centrosinistra) si dissocino esplicitamente e con convinzione da tali metodi, difendendo la libertà di espressione e il pluralismo.
Riaffermare il diritto all'esistenza di Israele: la critica all'occupazione o alle politiche del governo Netanyahu è legittima, ma deve essere rigorosamente separata dalla richiesta della cancellazione dello Stato di Israele. I nonviolenti devono costruire l'argine riaffermando che la soluzione non può avvenire attraverso la distruzione di una delle due identità nazionali, ma solo attraverso la loro coesistenza giusta e garantita (l'orizzonte dei "due popoli, due Stati").
Focus sulla responsabilità etica: di fronte alle accuse di "corresponsabilità" verso gli Stati terzi, è necessario che l'impegno si focalizzi non solo sulla condanna dell'aggressore più forte, ma sulla richiesta universale di rispetto del DIU da parte di tutti gli attori in campo, e sulla promozione delle garanzie internazionali (come quelle citate nel progetto di Costituzione della Terra) per sostituire la legge della forza con la forza del diritto.
La solidarietà a Fiano e a tutte le vittime dell'intolleranza che seguiranno, quindi, non è solo personale, ma è la difesa della metodologia democratica e nonviolenta – il dialogo e la ricerca di compromesso – contro il fanatismo che, ieri come negli "anni di piombo", cerca di imporre le proprie verità attraverso la prevaricazione e l'intimidazione.

Integrare strategia e principi etici
Dobbiamo lavorare insieme - i nonviolenti - per strutturare un quadro concettuale che integri in modo coeso i ragionamenti sviluppati in precedenza sulla legittimità, l'intolleranza e la frammentazione politica con le proposte strategiche da individuare e di cui ora si abbozzano alcune linee da sviluppare.
L'obiettivo è trasformare la critica ideologica del "trip palestinese" in un progetto politico costruttivo focalizzato sul sostegno a entrambi i poli del dialogo: la leadership alternativa in Palestina e l'opposizione progressista in Israele.
🤝 La proposta da avanzare dovrebbe basarsi su una strategia di doppio binario che supera la denuncia fine a sé stessa (il "trip") e si radica nella possibilità di trasformazione interna a entrambi i popoli. I ragionamenti precedenti (sulla non legittimità della violenza contro i civili e la necessità di un argine democratico) forniscono il fondamento etico a questa strategia.
1. 🇵🇸 Il Polo Palestinese: sostegno alle leadership dialoganti
Il punto sarebbe focalizzare l'attenzione su Marwan Barghouti (e, per estensione, sulle persone comuni come il Dott. Momen) per formulare la risposta diretta alla necessità di ricostruire la "resistenza palestinese" in termini di significato e consistenza reali, sfuggendo alle mitologie:
Critica all'estremismo (Hamas): la testimonianza del Dott. Momen ("Hamas vuole restare al potere con l'unica politica che conosce: il terrore") si collega direttamente alla nostra precedente analisi sulla sottovalutazione del fondamentalismo. Se le posizioni estreme del "movimento Pro Pal" ignorano questa minaccia, finiscono per sostenere, de facto, l'organizzazione che opprime i propri civili e nega il dialogo.
Integrazione: L'impegno non è solo contro l'occupazione, ma a favore dei palestinesi che lottano per i diritti umani e la democrazia contro il regime di terrore interno di Hamas.
Avanzare un'alternativa legittima: la liberazione di Barghouti – che sostiene i "due popoli, due Stati" – diventa un tema strategico, non una mera denuncia.
Integrazione: sostenere Barghouti significa identificare e privilegiare una realtà politica palestinese che sia consona ai nostri valori di libertà, diritti e dialogo, offrendo un interlocutore credibile e rappresentativo (dotato di spessore umano, politico e valoriale) alla comunità internazionale.
2. 🇮🇱 Il Polo Israeliano: sostenere l'opposizione progressista
Il focus sulla necessità di mandare a casa il governo Netanyahu e sostenere l'opposizione progressista è la risposta diretta alla nostra analisi sulla negazione del dialogo (la causa del blitz contro Fiano):
Contrastare l'ostacolo alla pace: l'agenda espansionistica e ultra-nazionalista di Netanyahu e della sua coalizione è l'ostacolo primario alla soluzione due popoli due Stati, sostenuta anche da figure palestinesi come Barghouti.
Rafforzare il dialogo interno: la campagna per sostenere l'opposizione progressista alle elezioni del 2026, e i movimenti sociali/pacifisti israeliani, fornisce un obiettivo politico concreto e una base per l'azione:
Integrazione: essa contrasta efficacemente la retorica del "trip" che vuole la cancellazione totale di Israele. Invece di annullare la "entità sionista," si propone di rafforzare l'alternativa progressista esistente al suo interno, dimostrando che l'obiettivo di pace ha radici profonde nella stessa società civile israeliana.
Superare l'intolleranza: questo approccio offre una via per le forze pacifiste di base ("cittadine del mondo") per lavorare a trasformare i "gruppi umani nemici in gruppi umani amici" – non zittendo i sostenitori del dialogo come Fiano, ma sostenendo attivamente quelli che possono dialogare dall'altra parte.
3. 🗺️ La Campagna Efficace: Superare l'Improvvisazione
La proposta di un movimento con "solidità di visione e retroterra culturale ed esperenziale" si integra con la nostra critica al "ribellismo estremista astratto":
Elemento della campagna efficace raccordo con i ragionamenti sviluppati
Non "Equipaggio di Terra" (Flottille) Rifiuto della retorica e delle azioni puramente simboliche e di rottura, che spesso sono inutilmente provocatorie e fini a sé stesse.
Focalizzazione su Barghouti/Netanyahu Sostituzione della denuncia generica (il "picchiare sulle malefatte") con un obiettivo politico specifico e misurabile (cambio di leadership in Israele e emersione di una leadership palestinese dialogante).
Mediatori che creano coesistenza Rifiuto dell'intolleranza (il blitz) in favore del lavoro a un percorso che, per prima cosa, crei condizioni di coesistenza pacifica (la strategia DPSD).
In sintesi, la proposta trasforma la logica polarizzata e autolesionista del "trip palestinese" in una strategia intersezionale che collega la lotta per i diritti umani a Gaza con la lotta per il cambio politico a Tel Aviv, ancorata al principio etico del mutuo riconoscimento e della nonviolenza politica.